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ESSENZIALE, DUNQUE (2009 - Siena)
Mi sono prefissato tempo fa di comporre delle righe decenti per voi lettori, ma come d’incanto la quotidianità è riuscita a rubarmi tutto il tempo, a costringermi e a catturare ogni mio buon intento, fino a spingermi ai limiti utili per la consegna.
Quello che avete fra le mani dovrebbe essere il mio racconto breve, in corsa per il decimo Premio Nazionale di Narrativa Essenziale; sarò essenziale, dunque.
La mia vita recente si è svolta e dispiegata in tutte le sue varianti e possibilità nell’unica cornice, devo dire per nulla pittorica, delle strade e delle piazze di Brescia e provincia, fra dialoghi improbabili, incontri inaspettati e legami del passato. La mia ultima, recente fetta di vita è stata una sorta di navigazione su mari sconvolti, con unico mezzo una zattera malmessa e le mani, per remare.
Comincia, questa piccola serie di eventi, la sera del primo di Settembre, il mio grosso e vivo Settembre, al lume sbarbellante di un interno, scala B, condominio Bridge. Bridge significa ‘ponte’ e si dice in giro che da quel ponte per la vita ci si siano lanciati in molti. L’atterraggio seguente il salto è morbido, senza sostanziali pericoli, provocati solamente dalla propria personale noncuranza nel compiere il gesto. Per una perfetta realizzazione del salto spingere indietro le braccia, flettere i muscoli delle gambe e balzare in avanti pieni di sicurezza in sé stessi, dimenticando tutto e tutti, nel pieno delle proprie forze, convinti.
Saltai, dunque, mentre poco prima in mia compagnia si dispiegavano sul muretto antistante la scala B nel seguente ordine Pi, diminutivo di Pietro, Pietro, diminutivo di Pietropaolo, Bongo (l’amico immaginario di Pietro), Pierpappa, prolungamento di Pier che asseconda la sua eterna fame e Angelo, diminutivo di Giuseppangelo.
La massa informe e scoordinata che le loro figure avevano composto davanti ai miei occhi seguitava ormai da ore a cercare di convincermi a saltare.
-Che aspetti? Salta!!
-Non saprei, dite che sia il caso?
-Certo che lo è! Non siamo mica venuti fin qui per guardarti rinunciare!! Buttati!
E così mi buttai.
Mentre percorrevo le scale in discesa, sino alla lavanderia, mi stringevano la mente tutte le considerazioni fatte i giorni precedenti in materia di salto, agitando ancora di più il mio percorso di redenzione. Il pensiero più ridondante e insistente riguardava quella sensazione che si prova quando, dopo aver tentato qualcosa, qualsiasi cosa, ci si rende improvvisamente conto della malriuscita dell’operazione. Ci si sbilancia, si ripercorre mentalmente il maledetto errore, analizzandolo in tutte le sue sfumature di significato, si prende coscienza della propria paura.
Ma io dovevo buttarmi, dovevo necessariamente saltare; così saltai.
Di fronte a me (fu un attimo) la lavanderia, con la sua porta di ferro sgarrupata che tratteneva a stento i suoi segreti.
Aprendola diventava tutto quanto poco; ogni cosa dell’universo era nulla verso quella decisa, ripugnante, lebbraiola e crudele messa in scena di maleodoranti odori. In un infinito secondo il naso s’ impregnava di ogni schifo lì presente.
Nemmeno io sapevo, nemmeno io avevo compreso: lì vi era tutto ciò che consisteva nel magnifico ‘salto’. Restare sull’orlo di quell’ingresso, assaggiare per poco tutto il brutto della vita significava purificare non i nostri peccati, bensì la nostra essenza; essere da quel momento in poi tutto ciò che sei.
Un qualcosa.
Un qualcosa?!?
No…questa storia non può funzionare, che cos’è il ‘salto’?
Non c’entra nulla un racconto su un salto con l’essenzialità. Devo ricominciare, ma devo partire da un altro punto di osservazione. S’era rimasti alla zattera, con le mani per remare, di settembre poi; anzi, Settembre. La cornice temporale è sempre presente e importante in un racconto breve, ma soprattutto Essenziale.
Settembre.
Io. P. Pietro. Bongo. Pierpappa. Angelo.
Alla scala B, proprio lì di fronte, si giocava a Uno. Il gioco più essenziale della storia.
Pierpappa mangiava, tanto, come al solito. Lo si chiamava Pier-pappa per via della sua incontenibile insaziabilità, accompagnata da una malcelata incapacità ad abbinare pietanze in maniera commestibile.
Tutti noialtri invece si mangiava essenziale; colazione, pranzo, merenda, cena, senza che ci si spettinasse un capello. Così, essenziali, decisi, calcolati.
Cambierei a questo punto anche lo scenario: Brescia è una città modesta e caotica, contraddittoria, piena di rotatorie. Poco essenziale.
Facciamo Rho. Provincia nebbiosa di Milano. Non ho la più pallida idea di come sia Rho, ma è il nome più essenziale che mi sia affiorato dalla memoria.
Rho, Settembre, scala B, condominio Bridge (che vuol dire ponte). Ma senza nessun ponte in nessuna lavanderia, che già abbiamo capito essere una situazione non adatta al nostro racconto di breve essenzialità.
Si stava lì e si parlava. Di cosa? Di salti no, di lavanderia nemmeno, di Essenzialità, ma non vorrei risultare ridondante. Facciamo che si parlava di cantanti gallesi sull’orlo dei settanta che mantengono comunque stile e una grande, profonda voce. Si stava lì e si desiderava, essenzialmente, di poter un giorno accarezzare il sogno di essere cantanti mostruosi. In Galles.
Certo, come se il Galles fosse meglio della scala B di fronte alla quale consumavamo la nostra serata! Non può funzionare…niente Galles, niente cantanti dalla voce potente.
Dunque si stava lì. Si stava lì e si era essenzialmente essenziali.
Poi uno di noi attaccò con una storia. La storia di un piccolo esserino, un omuncolo dalle braccia troppo lunghe per le sue gambe corte, che quasi poteva camminarci con le braccia che si ritrovava, poverino. Questo omuncolino abitava nei sotterranei di una città grandissima, con palazzi di cinquemila piani e luci a tutto spiano, taxi volanti e roboanti, metropolitaniche strade a quaranta corsie. Usciva di rado dalla sua tana, solo per bersi un caffè all’angolo della trentesima strada o per comprare il giornale, di fronte alla stazione della metro blu.
Viveva così la sua vita, nel silenzio sottostante il caos, di cui assaggiava ben poco. Passava il suo tempo a desiderare di essere come gli altri, tutti gli altri, quelli lassù.
Odiava i cantanti gallesi, secondo lui erano troppo profondi di voce.
Capitò una volta, scavalcando un piccolo muretto che separava lui dal resto del mondo, segnando il confine con il suo solitario sistema di pianeti, che incontrasse una piccola omuncola.
Si guardarono.
Si guardarono di nuovo, più in profondità, poi lui disse a lei: - Mi sa che hai le braccia un po’ troppo lunghe, signorina!-
Ma che diavolo di storia è?!?
Dove sono i mostri paurosi, gli alieni, i politici corrotti e gli alieni??
Gli alieni!! Sono fondamentali in una storia…soprattutto se la storia deve essere essenziale.
Voglio dire, se una storia vede al suo inizio una civiltà tranquilla, ordinata, sconvolta poi dall’arrivo di migliaia di orribili e crudeli alieni che vogliono sottomettere l’umanità intera e conquistare il pianeta, allora questa storia sarà essenziale.
Perché? Vi chiederete.
Perché se in un mondo bello e giusto, improvvisamente le cose non sono più giuste, ma sbagliate, contorte, finte, allora si rappresenta l’essenzialità della storia umana.
Da uomo in funzione della Natura, suo servo, a Natura serva dell’uomo.
Cambiamo allora storia. Niente più scala B, nessun settembre qualsiasi, nessun personaggio inutile.
Questa mia nuova storia Essenziale è un mostro di Essenzialità.
Questa storia nuova ha due personaggi, solo due: l’umanità e la Natura.
Essi vivevano in pace. Poi l’uomo iniziò a sottovalutare il loro rapporto, sfruttando Natura in tutti i modi possibili, la maggior parte dei quali fatti di dolorose rinunce.
Ci fu sempre meno ossigeno, meno acqua, meno animali; le persone iniziarono a morire di fame, a farsi le guerre per le religioni, per il petrolio, per l’acqua, per medicine che servivano a curare malanni causati dalle guerre stesse.
Natura soffriva, e con lei l’umanità.
Il prezzo delle rinunce e dello sfruttamento non tardò ad arrivare sul conto di entrambi.
Fu una guerra combattuta solo dall’uomo, contro se stesso, contro la sua natura, a convincere gli alieni a impossessarsi di tutto quanto, a stringere le catene ai polsi degli uomini e degli alberi rimasti, a conquistare il pianeta.
Gli alieni estirparono la vita, piano piano, un po’ per volta.
Essenziali, gli alieni.
Essenziali come deus ex machina.
Quello che avete fra le mani dovrebbe essere il mio racconto breve, in corsa per il decimo Premio Nazionale di Narrativa Essenziale; sarò essenziale, dunque.
La mia vita recente si è svolta e dispiegata in tutte le sue varianti e possibilità nell’unica cornice, devo dire per nulla pittorica, delle strade e delle piazze di Brescia e provincia, fra dialoghi improbabili, incontri inaspettati e legami del passato. La mia ultima, recente fetta di vita è stata una sorta di navigazione su mari sconvolti, con unico mezzo una zattera malmessa e le mani, per remare.
Comincia, questa piccola serie di eventi, la sera del primo di Settembre, il mio grosso e vivo Settembre, al lume sbarbellante di un interno, scala B, condominio Bridge. Bridge significa ‘ponte’ e si dice in giro che da quel ponte per la vita ci si siano lanciati in molti. L’atterraggio seguente il salto è morbido, senza sostanziali pericoli, provocati solamente dalla propria personale noncuranza nel compiere il gesto. Per una perfetta realizzazione del salto spingere indietro le braccia, flettere i muscoli delle gambe e balzare in avanti pieni di sicurezza in sé stessi, dimenticando tutto e tutti, nel pieno delle proprie forze, convinti.
Saltai, dunque, mentre poco prima in mia compagnia si dispiegavano sul muretto antistante la scala B nel seguente ordine Pi, diminutivo di Pietro, Pietro, diminutivo di Pietropaolo, Bongo (l’amico immaginario di Pietro), Pierpappa, prolungamento di Pier che asseconda la sua eterna fame e Angelo, diminutivo di Giuseppangelo.
La massa informe e scoordinata che le loro figure avevano composto davanti ai miei occhi seguitava ormai da ore a cercare di convincermi a saltare.
-Che aspetti? Salta!!
-Non saprei, dite che sia il caso?
-Certo che lo è! Non siamo mica venuti fin qui per guardarti rinunciare!! Buttati!
E così mi buttai.
Mentre percorrevo le scale in discesa, sino alla lavanderia, mi stringevano la mente tutte le considerazioni fatte i giorni precedenti in materia di salto, agitando ancora di più il mio percorso di redenzione. Il pensiero più ridondante e insistente riguardava quella sensazione che si prova quando, dopo aver tentato qualcosa, qualsiasi cosa, ci si rende improvvisamente conto della malriuscita dell’operazione. Ci si sbilancia, si ripercorre mentalmente il maledetto errore, analizzandolo in tutte le sue sfumature di significato, si prende coscienza della propria paura.
Ma io dovevo buttarmi, dovevo necessariamente saltare; così saltai.
Di fronte a me (fu un attimo) la lavanderia, con la sua porta di ferro sgarrupata che tratteneva a stento i suoi segreti.
Aprendola diventava tutto quanto poco; ogni cosa dell’universo era nulla verso quella decisa, ripugnante, lebbraiola e crudele messa in scena di maleodoranti odori. In un infinito secondo il naso s’ impregnava di ogni schifo lì presente.
Nemmeno io sapevo, nemmeno io avevo compreso: lì vi era tutto ciò che consisteva nel magnifico ‘salto’. Restare sull’orlo di quell’ingresso, assaggiare per poco tutto il brutto della vita significava purificare non i nostri peccati, bensì la nostra essenza; essere da quel momento in poi tutto ciò che sei.
Un qualcosa.
Un qualcosa?!?
No…questa storia non può funzionare, che cos’è il ‘salto’?
Non c’entra nulla un racconto su un salto con l’essenzialità. Devo ricominciare, ma devo partire da un altro punto di osservazione. S’era rimasti alla zattera, con le mani per remare, di settembre poi; anzi, Settembre. La cornice temporale è sempre presente e importante in un racconto breve, ma soprattutto Essenziale.
Settembre.
Io. P. Pietro. Bongo. Pierpappa. Angelo.
Alla scala B, proprio lì di fronte, si giocava a Uno. Il gioco più essenziale della storia.
Pierpappa mangiava, tanto, come al solito. Lo si chiamava Pier-pappa per via della sua incontenibile insaziabilità, accompagnata da una malcelata incapacità ad abbinare pietanze in maniera commestibile.
Tutti noialtri invece si mangiava essenziale; colazione, pranzo, merenda, cena, senza che ci si spettinasse un capello. Così, essenziali, decisi, calcolati.
Cambierei a questo punto anche lo scenario: Brescia è una città modesta e caotica, contraddittoria, piena di rotatorie. Poco essenziale.
Facciamo Rho. Provincia nebbiosa di Milano. Non ho la più pallida idea di come sia Rho, ma è il nome più essenziale che mi sia affiorato dalla memoria.
Rho, Settembre, scala B, condominio Bridge (che vuol dire ponte). Ma senza nessun ponte in nessuna lavanderia, che già abbiamo capito essere una situazione non adatta al nostro racconto di breve essenzialità.
Si stava lì e si parlava. Di cosa? Di salti no, di lavanderia nemmeno, di Essenzialità, ma non vorrei risultare ridondante. Facciamo che si parlava di cantanti gallesi sull’orlo dei settanta che mantengono comunque stile e una grande, profonda voce. Si stava lì e si desiderava, essenzialmente, di poter un giorno accarezzare il sogno di essere cantanti mostruosi. In Galles.
Certo, come se il Galles fosse meglio della scala B di fronte alla quale consumavamo la nostra serata! Non può funzionare…niente Galles, niente cantanti dalla voce potente.
Dunque si stava lì. Si stava lì e si era essenzialmente essenziali.
Poi uno di noi attaccò con una storia. La storia di un piccolo esserino, un omuncolo dalle braccia troppo lunghe per le sue gambe corte, che quasi poteva camminarci con le braccia che si ritrovava, poverino. Questo omuncolino abitava nei sotterranei di una città grandissima, con palazzi di cinquemila piani e luci a tutto spiano, taxi volanti e roboanti, metropolitaniche strade a quaranta corsie. Usciva di rado dalla sua tana, solo per bersi un caffè all’angolo della trentesima strada o per comprare il giornale, di fronte alla stazione della metro blu.
Viveva così la sua vita, nel silenzio sottostante il caos, di cui assaggiava ben poco. Passava il suo tempo a desiderare di essere come gli altri, tutti gli altri, quelli lassù.
Odiava i cantanti gallesi, secondo lui erano troppo profondi di voce.
Capitò una volta, scavalcando un piccolo muretto che separava lui dal resto del mondo, segnando il confine con il suo solitario sistema di pianeti, che incontrasse una piccola omuncola.
Si guardarono.
Si guardarono di nuovo, più in profondità, poi lui disse a lei: - Mi sa che hai le braccia un po’ troppo lunghe, signorina!-
Ma che diavolo di storia è?!?
Dove sono i mostri paurosi, gli alieni, i politici corrotti e gli alieni??
Gli alieni!! Sono fondamentali in una storia…soprattutto se la storia deve essere essenziale.
Voglio dire, se una storia vede al suo inizio una civiltà tranquilla, ordinata, sconvolta poi dall’arrivo di migliaia di orribili e crudeli alieni che vogliono sottomettere l’umanità intera e conquistare il pianeta, allora questa storia sarà essenziale.
Perché? Vi chiederete.
Perché se in un mondo bello e giusto, improvvisamente le cose non sono più giuste, ma sbagliate, contorte, finte, allora si rappresenta l’essenzialità della storia umana.
Da uomo in funzione della Natura, suo servo, a Natura serva dell’uomo.
Cambiamo allora storia. Niente più scala B, nessun settembre qualsiasi, nessun personaggio inutile.
Questa mia nuova storia Essenziale è un mostro di Essenzialità.
Questa storia nuova ha due personaggi, solo due: l’umanità e la Natura.
Essi vivevano in pace. Poi l’uomo iniziò a sottovalutare il loro rapporto, sfruttando Natura in tutti i modi possibili, la maggior parte dei quali fatti di dolorose rinunce.
Ci fu sempre meno ossigeno, meno acqua, meno animali; le persone iniziarono a morire di fame, a farsi le guerre per le religioni, per il petrolio, per l’acqua, per medicine che servivano a curare malanni causati dalle guerre stesse.
Natura soffriva, e con lei l’umanità.
Il prezzo delle rinunce e dello sfruttamento non tardò ad arrivare sul conto di entrambi.
Fu una guerra combattuta solo dall’uomo, contro se stesso, contro la sua natura, a convincere gli alieni a impossessarsi di tutto quanto, a stringere le catene ai polsi degli uomini e degli alberi rimasti, a conquistare il pianeta.
Gli alieni estirparono la vita, piano piano, un po’ per volta.
Essenziali, gli alieni.
Essenziali come deus ex machina.
MADONNA CIECA IN UNA VALLE DI SPIGOLI. La mia vita tratta da una storia vera. /paragrafi finali/. (2011 - Siena, Brescia)
VIII
(DELLE LOR TOLTE ANELLA EMPIE’ TRE MOGGIA)
La campagna vista da Certosa sommerse le sue pieghe boschive in una coltre di nebbia, e prese ad avanzare fin sotto le mura della città. Cinta d’assedio, Siena si difendeva come suggerivano le sue possibilità, addormentata com’era nel luminoso mantello della luna piena; quasi, in punti sparsi, si poteva udire il soave brillare di un orchestra di lucciole, danzatrici eclettiche di inesistenti note.
Gli anelli delle case, impettiti e stretti nelle file di difesa, respiravano come polmoni in ampie tornate, acciaccati e rabberciati come vecchi soldati veterani, oziosi sguardi lanciati verso il nemico in avvicinamento, languidi i sospiri, preveggenti la battaglia.
Stava in faccia il nemico, lento il suo scorrere, quasi fermo, ma incisivo.
Giungevano da lungo cammino i barbari, lontane le loro terre, nascosti dalle nebbie della loro chiara e splendida crudeltà; vividi i riverberi delle loro spade, pronte a trafiggere e lacerare e senza rumore alcuno sollevare. C’erano volte, che la campagna viveva di silente vita propria, e in luna piena, divideva il cielo fra le colline, in un gioco di favolose equidistanze.
C’erano volte, che il silenzio del circostante riempiva di luce l’animo di chi era in grado di sentirlo.
Scivolai leggermente sotto le lenzuola, osservando dalla finestra le colline galleggiare.
Mesi dopo già mi ero trasferito. Cambiare casa fa male, ma in qualche modo aiuta a sopportare l’immobilità. Vedevo Massetana Romana dalla finestra di camera.
La cosa che più mi piaceva della mia nuova sistemazione era il pavimento; un cotto consumato dagli anni, irregolare e impreciso, ma di calore, di una sostanza che quasi pareva morbida, adatto ai piedi scalzi. Le porte e i mobili, cassettoni e armadi, erano di un legno curato, non so se di valore o antichi, ma onesti e capienti; il mio letto con testata di legno dipinto.
Le prime settimane le passai senza coinquilini; giornate di calcolo delle misure, spese nella valutazione degli spigoli, degli angoli, degli anfratti. Picchiai contro qualsiasi cosa avesse più di due dimensioni. Le serate ancora povere di studenti, la città con gli ultimi turisti. Corse podistiche per le strade del centro, alle dieci di sera, con i corridori lanciati fra le tavolate di contrada, piene di gente.
Sparsi per il percorso, una marea di ostacoli: neo mamme con passeggino e amica giovane non ancora sposata accanto, nonnini anziani che non si accorgono affatto dell’esistenza di una gara di corsa, bimbi minchia che saltellano giocando da un lato all’altro della strada, cani, gatti, primi e secondi piatti, brocche generose di vino rosso, taglieri, contorni e quant’altro. In mezzo a tutto questo, una cinquantina di sportivi, impegnati a raggiungere quello davanti o a mantenere il distacco dal successivo partecipante, sprezzanti del pericolo di eventuali incidenti con la popolazione civile.
La maggior parte del mio tempo la occupavo invece a spacchettare, a distribuire gli oggetti del mio quotidiano nei posti loro assegnatigli. Dividevo con cura le magliette dai maglioni, le matite dai pennelli, ristabilendo un ordine che sapevo sarebbe durato ben poco; riempivo cassetti e mensole, coprivo ogni superficie disponibile della stanza. Riscoprivo vecchie fotografie e cartoline, davo nuova vita a piccole parti di me chiuse da più di un mese in scatole di cartone, malformate, un po’ sfondate, trovate fra gli scarti di attività commerciali e negozi vari.
Una bella casa, in conclusione, peccato però che la televisione rendesse visibile solamente Rai uno e Rai due; mi era concesso vedere quindi gran premi di Formula 1, partite della nazionale di calcio, pessimi telegiornali, Quelli che il calcio e, nel caso avessi voluto variare tema, Miss Italia.
A raggiungere le mura bastavano dieci minuti circa di salita; un ottimo allenamento per persone grasse. Io però ancora pesavo molto meno di novanta chili, causa costituzione.
Rischiavo, nel giro di pochi mesi, di scomparire, o di diventare muscolosissimo, ignorando ancora quale delle due opportunità mi si addicesse di meno.
In quella casa vidi una gran quantità di film, spesso già visti, magari un po’ dimenticati.
Dipinsi una bicicletta, poi, di domenica, andai a mangiare una porzione di lasagne al Bar dell’Orso.
Ogni mattina, alle quattro e mezza, un gallo cantava, mentre nel pomeriggio due anziani, marito e moglie, raccoglievano fichi dai loro alberi. Ascoltavo Beck, Mum, Qintorigo, Mogwai, Mannarino; distendevo tutto me stesso nell’arco delle giornate, sparpagliandomi come coriandoli.
IX
(LA FINE)
Temo che questa sia la fine. Arriva così, senza se e senza ma, senza un motivo; arriva e basta, si spiega nel percorso fra il centro e casa mia, nel freddo, con la costellazione di Orione che, come sempre, mi asseconda da lassù. Arriva la fine, arriva per me e per voi, la fine di tutti. Così si spiega il finale, in mancanza di personaggi, in mancanza di storie da raccontare, da distorcere.
Arriva, fra il centro e casa mia, ma almeno arriva in discesa.
Avrei voluto che questo fosse un libro, un libro vero, con un intreccio, dei personaggi seri, con delle caratteristiche, mentre invece paiono assomigliarsi tutti, in una idiozia malinconica, in un ballo senza musica. Le note, che sarebbero poi la storia, sono sempre mancate, sin dal principio, la qual cosa mi è andata a genio sino ad un certo punto, fino ad ora.
Adesso sono senza storia, così come lo sono sempre stato, sono senza personaggi, come mai mi ero ritrovato, sono senza malinconia, iridescenza fondamentale per un narratore incapace.
Arriva la fine, e tutto si trascina nelle parole scritte su queste pagine.
Mi rivolgo a voi, i miei lettori, che in maggior parte coincidono con i miei personaggi, per abbandonarvi, per lasciarvi soli, così come questo umile vostro si sente di essere; mi rivolgo a voi con un saluto, un lascito finale, un abbraccio, se vogliamo, che si può immaginare fatto di carta.
Avrei voluto riempire centinaia di altri fogli, costruire e immaginare altre storie, altri frammenti di una ipotetica vita, sarei voluto arrivare sino alla cima della mia esistenza, qui a Siena, ma chiuderò prima, chiudo adesso.
Molti personaggi non ricevono giustizia, privati di una vera fine, di un senso, di un significato.
Come unica scusa, posso dirvi che di significati non ne avevate nemmeno all’inizio, ma solo di inchiostro eravate zuppi.
Comunque, vi chiedo scusa.
Chiudo qui, ora, senza aver voglia di immaginare altro, poiché tutto ciò che mi resta da contemplare, da scovare, e da disegnare, coincide con ciò che voi sarete, che voi farete, e delle quali cose, sarò ben lieto di partecipare, sebbene in altro modo.
Oramai è giunto il momento che io mi liberi di questo libro, che libro non è: di questo racconto, di questo dispiegamento di me stesso, e di voi stessi, trasmutati in ironica e lasciva autocostruzione; liberarmene devo, seriamente, per il mio bene, per il bene anche vostro, di lettori, che forse speravate, attendavate, in qualcosa di più vero, ma che in realtà, più di così non può essere sincero.
Così, vi lascio, citando:
Grazie a tutti
Per davvero,
Ma siamo alla fine
E ho perso l’inizio,
Ma ho
Un senso
In più.
(DELLE LOR TOLTE ANELLA EMPIE’ TRE MOGGIA)
La campagna vista da Certosa sommerse le sue pieghe boschive in una coltre di nebbia, e prese ad avanzare fin sotto le mura della città. Cinta d’assedio, Siena si difendeva come suggerivano le sue possibilità, addormentata com’era nel luminoso mantello della luna piena; quasi, in punti sparsi, si poteva udire il soave brillare di un orchestra di lucciole, danzatrici eclettiche di inesistenti note.
Gli anelli delle case, impettiti e stretti nelle file di difesa, respiravano come polmoni in ampie tornate, acciaccati e rabberciati come vecchi soldati veterani, oziosi sguardi lanciati verso il nemico in avvicinamento, languidi i sospiri, preveggenti la battaglia.
Stava in faccia il nemico, lento il suo scorrere, quasi fermo, ma incisivo.
Giungevano da lungo cammino i barbari, lontane le loro terre, nascosti dalle nebbie della loro chiara e splendida crudeltà; vividi i riverberi delle loro spade, pronte a trafiggere e lacerare e senza rumore alcuno sollevare. C’erano volte, che la campagna viveva di silente vita propria, e in luna piena, divideva il cielo fra le colline, in un gioco di favolose equidistanze.
C’erano volte, che il silenzio del circostante riempiva di luce l’animo di chi era in grado di sentirlo.
Scivolai leggermente sotto le lenzuola, osservando dalla finestra le colline galleggiare.
Mesi dopo già mi ero trasferito. Cambiare casa fa male, ma in qualche modo aiuta a sopportare l’immobilità. Vedevo Massetana Romana dalla finestra di camera.
La cosa che più mi piaceva della mia nuova sistemazione era il pavimento; un cotto consumato dagli anni, irregolare e impreciso, ma di calore, di una sostanza che quasi pareva morbida, adatto ai piedi scalzi. Le porte e i mobili, cassettoni e armadi, erano di un legno curato, non so se di valore o antichi, ma onesti e capienti; il mio letto con testata di legno dipinto.
Le prime settimane le passai senza coinquilini; giornate di calcolo delle misure, spese nella valutazione degli spigoli, degli angoli, degli anfratti. Picchiai contro qualsiasi cosa avesse più di due dimensioni. Le serate ancora povere di studenti, la città con gli ultimi turisti. Corse podistiche per le strade del centro, alle dieci di sera, con i corridori lanciati fra le tavolate di contrada, piene di gente.
Sparsi per il percorso, una marea di ostacoli: neo mamme con passeggino e amica giovane non ancora sposata accanto, nonnini anziani che non si accorgono affatto dell’esistenza di una gara di corsa, bimbi minchia che saltellano giocando da un lato all’altro della strada, cani, gatti, primi e secondi piatti, brocche generose di vino rosso, taglieri, contorni e quant’altro. In mezzo a tutto questo, una cinquantina di sportivi, impegnati a raggiungere quello davanti o a mantenere il distacco dal successivo partecipante, sprezzanti del pericolo di eventuali incidenti con la popolazione civile.
La maggior parte del mio tempo la occupavo invece a spacchettare, a distribuire gli oggetti del mio quotidiano nei posti loro assegnatigli. Dividevo con cura le magliette dai maglioni, le matite dai pennelli, ristabilendo un ordine che sapevo sarebbe durato ben poco; riempivo cassetti e mensole, coprivo ogni superficie disponibile della stanza. Riscoprivo vecchie fotografie e cartoline, davo nuova vita a piccole parti di me chiuse da più di un mese in scatole di cartone, malformate, un po’ sfondate, trovate fra gli scarti di attività commerciali e negozi vari.
Una bella casa, in conclusione, peccato però che la televisione rendesse visibile solamente Rai uno e Rai due; mi era concesso vedere quindi gran premi di Formula 1, partite della nazionale di calcio, pessimi telegiornali, Quelli che il calcio e, nel caso avessi voluto variare tema, Miss Italia.
A raggiungere le mura bastavano dieci minuti circa di salita; un ottimo allenamento per persone grasse. Io però ancora pesavo molto meno di novanta chili, causa costituzione.
Rischiavo, nel giro di pochi mesi, di scomparire, o di diventare muscolosissimo, ignorando ancora quale delle due opportunità mi si addicesse di meno.
In quella casa vidi una gran quantità di film, spesso già visti, magari un po’ dimenticati.
Dipinsi una bicicletta, poi, di domenica, andai a mangiare una porzione di lasagne al Bar dell’Orso.
Ogni mattina, alle quattro e mezza, un gallo cantava, mentre nel pomeriggio due anziani, marito e moglie, raccoglievano fichi dai loro alberi. Ascoltavo Beck, Mum, Qintorigo, Mogwai, Mannarino; distendevo tutto me stesso nell’arco delle giornate, sparpagliandomi come coriandoli.
IX
(LA FINE)
Temo che questa sia la fine. Arriva così, senza se e senza ma, senza un motivo; arriva e basta, si spiega nel percorso fra il centro e casa mia, nel freddo, con la costellazione di Orione che, come sempre, mi asseconda da lassù. Arriva la fine, arriva per me e per voi, la fine di tutti. Così si spiega il finale, in mancanza di personaggi, in mancanza di storie da raccontare, da distorcere.
Arriva, fra il centro e casa mia, ma almeno arriva in discesa.
Avrei voluto che questo fosse un libro, un libro vero, con un intreccio, dei personaggi seri, con delle caratteristiche, mentre invece paiono assomigliarsi tutti, in una idiozia malinconica, in un ballo senza musica. Le note, che sarebbero poi la storia, sono sempre mancate, sin dal principio, la qual cosa mi è andata a genio sino ad un certo punto, fino ad ora.
Adesso sono senza storia, così come lo sono sempre stato, sono senza personaggi, come mai mi ero ritrovato, sono senza malinconia, iridescenza fondamentale per un narratore incapace.
Arriva la fine, e tutto si trascina nelle parole scritte su queste pagine.
Mi rivolgo a voi, i miei lettori, che in maggior parte coincidono con i miei personaggi, per abbandonarvi, per lasciarvi soli, così come questo umile vostro si sente di essere; mi rivolgo a voi con un saluto, un lascito finale, un abbraccio, se vogliamo, che si può immaginare fatto di carta.
Avrei voluto riempire centinaia di altri fogli, costruire e immaginare altre storie, altri frammenti di una ipotetica vita, sarei voluto arrivare sino alla cima della mia esistenza, qui a Siena, ma chiuderò prima, chiudo adesso.
Molti personaggi non ricevono giustizia, privati di una vera fine, di un senso, di un significato.
Come unica scusa, posso dirvi che di significati non ne avevate nemmeno all’inizio, ma solo di inchiostro eravate zuppi.
Comunque, vi chiedo scusa.
Chiudo qui, ora, senza aver voglia di immaginare altro, poiché tutto ciò che mi resta da contemplare, da scovare, e da disegnare, coincide con ciò che voi sarete, che voi farete, e delle quali cose, sarò ben lieto di partecipare, sebbene in altro modo.
Oramai è giunto il momento che io mi liberi di questo libro, che libro non è: di questo racconto, di questo dispiegamento di me stesso, e di voi stessi, trasmutati in ironica e lasciva autocostruzione; liberarmene devo, seriamente, per il mio bene, per il bene anche vostro, di lettori, che forse speravate, attendavate, in qualcosa di più vero, ma che in realtà, più di così non può essere sincero.
Così, vi lascio, citando:
Grazie a tutti
Per davvero,
Ma siamo alla fine
E ho perso l’inizio,
Ma ho
Un senso
In più.